Durata
9 giugno - 14 ottobre 2021

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testo di Francesca Comisso


A poche settimane dai bombardamenti in Palestina che hanno riacceso l’attenzione dei media, il film che Emily Jacir presenta a Torino, insieme a fotografie e film stills, in occasione della sua terza personale presso la Galleria Peola Simondi, ci conduce al di fuori della nozione di contingenza.

Realizzato nel 2019, letter to a friend, è un viaggio nel tempo e nello spazio, che inizia e si conclude con i passi dell’artista, in un percorso che dal presente guarda al futuro e al passato, e ha nel suolo il suo punto fisico e simbolico di ancoraggio: il pavimento di una casa, di un giardino, di una strada. 

letter to a friend racconta nel dettaglio un secolo di vita di una casa e una strada di Betlemme, alternando riprese video, fotografie, suoni, materiali storici, frutto delle ricerche e della documentazione prodotta nel corso di molti anni di lavoro dall'artista e dal suo archivio. Nel film la dimensione biografica familiare intreccia quella storica di un paese, la Palestina, polverizzato in territori e comunità diasporiche in permanente stato d’assedio.
È uno sguardo situato, che parte proprio dalla casa dell’artista, costruita dal bis bis nonno archivista e amministratore di Betlemme, e da lì osserva e percorre, nello spazio e nel tempo, il costante ridisegno di confini, l’erosione progressiva del territorio, la contrazione dei passaggi, in una crescente condizione claustrofobica che ha la sua evidenza fisica nel grande muro eretto nel 2004 , “barriera di sicurezza” per Israele e “muro dell’Apartheid” per i palestinesi. Esso sorge a 200 metri da casa Jacir e divide il quartiere: “il muro non ci separa da Israele, ci separa da noi stessi”: il suo movimento nel corpo della città isola i luoghi, li nasconde e con effetto predatorio ingloba terreni, beni privati, patrimonio culturale. Insieme ai check point, al filo spinato e alle postazioni di controllo, sorte spesso con funzione simbolica e psicologica di intimidazione prima ancora che di effettivo potere operativo, esso ridisegna i luoghi e le forme dell’abitare secondo un’urbanistica di guerra.
Il film si apre con l’immagine di alcune delle migliaia di bombe a gas lacrimogeni, ad alta tossicità, raccolte dall’artista nel giardino di casa, una drammatica unità di misura della quotidianità che avvelena i corpi e la vita di chi abita lungo la strada che collegava Gerusalemme a Hebron, da tempi immemori percorsa dal flusso costante dei viaggiatori e dei pellegrini, e ora divisa dal muro e occupata dai soldati israeliani.

Il racconto filmico si arresta talvolta nell’iconica fissità del fermo immagine: la sagoma scura di un corpo immobile, avvolto dalla nebbia fitta e bianca dei gas, senza luogo, diventa emblematica di una condizione esistenziale, sociale e politica, che è sempre insieme individuale e collettiva. Negli spazi della galleria, il film trova una sorta di punteggiatura concettuale, emozionale e sottilmente poetica in una selezione di fotografie e film stills: la Luna, un soffitto animato dalla bellezza incongrua di un fiore, un cassonetto capace di trasformarsi in baluardo della resistenza, un reperto bellico.
La voce narrante di Emily Jacir accompagna il fluire delle immagini e dei suoni, che il suo racconto restituisce allo statuto di documenti, di prove: fotografie e filmati, girati in parte dall’autobus, percorrendo la strada e i suoi dintorni, osservando negli anni la progressiva crescita di un insediamento che ha lentamente preso il posto di un bosco su un terreno confiscato, le vigne da vino che sopravvivono al peso dei massi e della strada con cui sono state schiacciate, così come alle incursioni distruttive dei coloni. Mappe cartografiche, immagini aeree, fotografie storiche, custodite nell’archivio personale, permettono di osservare nel tempo i cambiamenti dei luoghi, come il grande palazzo di famiglia, costruito nel 1910 accanto alla casa e perduto già negli anni trenta per i rovesci della fortuna, diventato poi Hotel Jacir, dove la musica assordante e la stolta euforia dei matrimoni si può alternare al fuoco dei cecchini. Alcuni materiali visivi “in presa diretta” rimandano ai linguaggi del giornalismo di strada, che ci ha abituati a trovarci difronte ai soprusi e alle ingiustizie che si consumano nelle piazze e nelle strade della città del mondo. Rendere visibile l’ingiustizia, agire dove sono stati commessi abusi e violazioni dei diritti umani, partendo dagli edifici, è l’obiettivo di Forensic Architecture, gruppo multidisciplinare fondato da Eyal Weizman. È lui l’amico artista cui Jacir indirizza la sua “lettera” visiva, con la richiesta di aprire ufficialmente un'indagine "prima che venga commesso un crimine", prima che la casa venga occupata dai coloni, come altri luoghi e spazi in Palestina, in modo progressivo e inarrestabile, senza che quasi ce ne si rendesse conto. Da una città ridotta al 13% del suo territorio e con diciotto insediamenti illegali che premono sui suoi margini, l’artista affida alla conoscenza, al valore probatorio dei documenti e alla sua stessa testimonianza e presenza fisica, la funzione di una contromisura, di un drammatico tentativo di anticipo su una violenza “attesa”. 

L’oscillazione del tempo sulla quale è costruito il film ha subito in questi giorni un paradossale rovesciamento, in cui il presagio è diventato documento di attualità: il 15 maggio scorso, la casa di Emily Jacir è stata forzata e occupata temporaneamente dall’esercito israeliano come postazione di attacco durante i conflitti a fuoco. Da alcuni anni è sede del centro d’arte Dar Yusuf Narsi Jacir for Arts and Research, creato dall’artista, che ne è direttore esecutivo e vi lavora con Aline Khoury, con residenze artistiche internazionali e una programmazione culturale ed educativa rivolta alla popolazione locale. Come riportano molti articoli usciti su Art Forum, Art News, The Art Newspaper e altre riviste d’arte internazionali, ci sono stati ingenti danni a tutto l’edificio, comprese la casa e lo studio dell’artista, gli uffici sono stati saccheggiati e confiscati computer, hard drives, macchine fotografiche, telefoni, libri. Anche il giardino, usato per azioni di agricoltura urbana, è andato a fuoco.

L’amico evocato dal titolo letter to a friend, interlocutore reale e insieme artificio della narrazione, è anche il “tu” rivolto al pubblico, a noi, chiamati a un ascolto vigile, invitati a pensare, oltre le forme inattive della compassione e dell’indignazione morale, come Susan Sontag auspicava pensando al ruolo delle immagini “davanti al dolore degli altri”.

Francesca Comisso

 

Il film letter to a friend è stato commissionato dal Fisher Center a Bard, dove nel novembre 2019 ha avuto la sua anteprima mondiale al Live Arts Bard Biennial.

 

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Emily Jacir è artista e regista, e vive nel Mediterraneo. Con la sua ricerca affronta questioni legate alla traduzione, ai processi di trasformazione e di resistenza, alle narrazioni messe a tacere dai discorsi egemonici. Il suo lavoro indaga il movimento personale e collettivo attraverso lo spazio pubblico e le sue implicazioni sull'esperienza fisica e sociale dello spazio e del tempo transmediterranei, e si sviluppa attraverso media espressivi che includono la fotografia, il cinema, la scultura, l’installazione, i gesti performativi e la ricerca storica e d’archivio. Ha ottenuto importanti riconoscimenti e premi tra cui il Leone d'Oro alla 52a Biennale Internazionale d’Arte di Venezia per la sua opera Material for a film (2007); il Prince Claus Award dal Prince Claus Fund all'Aia (2007); l'Hugo Boss Prize dal Guggenheim Museum di New York (2008); il Herb Alpert Award for the Arts dalla Herb Alpert Foundation, Santa Monica CA (2011); e l'Andrew W. Mellon Foundation Rome Prize Fellow all'American Academy in Rome (2015). Tra le sue personali si segnalano quelle presso Alexander and Bonin, New York (2018); IMMA (Irish Museum of Modern Art), Dublino (2016-17); Whitechapel Gallery, Londra (2015); Darat al Funun, Amman (2014-15); Beirut Art Center (2010) e il Guggenheim Museum, New York (2009). Ha inoltre esposto in musei e centri d’arte tra cui al Museum of Modern Art, New York; San Francisco Museum of Modern Art; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; Fondazione Merz, Torino, e in importanti rassegne espositive: dOCUMENTA (13) (2012) e dOCUMENTA (14) (2017) a Kassel; dal 2007 a cinque edizioni consecutive della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia; Biennale di Sharjah Emirati Arabi Uniti (2005, 2011); 29° Bienal de São Paulo, Brasile (2010); 15° Biennale di Sydney (2006) Whitney Biennial (2004) e 8° Biennale di Istanbul (2003). 

 

Comunicato Stampa