Durata
22 giugno - 24 luglio 2018

Nell'ambito della prima edizione di Fo.To. Fotografi a Torino la galleria Alberto Peola presenta la mostra collettiva E il giardino creò l’uomo.

E IL GIARDINO CREÒ L’UOMO
testo di Francesca Simondi

Il titolo della mostra è la citazione del saggio E il giardino creò l’uomo di Jorn de Précy, filosofo giardiniere, personaggio letterario creato dallo storico dei giardini Marco Martella. De Précy, vissuto tra Ottocento e Novecento, epoca segnata da una grande trasformazione industriale, urbanistica e sociale, nel 1912 pubblicò in Inghilterra The lost garden in cui racconta la bellezza e la spiritualità dei giardini, luoghi sacri dove la natura può crescere libera e incontaminata, veri e propri rifugi per l’anima.

Non manca di esprimere però la sua forte preoccupazione verso un mondo che sta cambiando, interrogandosi su quello che potrebbe essere il nostro destino: «[…] domandarsi cosa sarà del giardino significa domandarsi cosa ne sarà dell’umanità, tanto intimo è il legame tra giardino e uomo […]». Le opere fotografiche scelte per la collettiva accompagnano visivamente i pensieri di Jorn de Précy. Sono immagini che raccontano il precario e spesso effimero rapporto tra uomo e natura e che testimoniano il senso di abbandono che ne deriva. 

Il sacro bosco a lui solo e a nessun altro assomiglia.
Iscrizione scolpita nella pietra all’ingresso del giardino di Bomarzo


L’immagine fotografica di Gioberto Noro apre la collettiva presso la Galleria Alberto Peola. L’opera emana un’atmosfera onirica e al contempo sacra. Per coglierne la suggestione più profonda andrebbe guardata ascoltando A horse with no name degli America, a cui Sergio Gioberto e Marilena Noro si sono ispirati per la composizione del titolo Civilisation - An elder with no name. Nata da un sogno di Marilena, realizzata all’alba con una luce piena, l’opera vuole offrire una chiave di lettura positiva, una via d’uscita alla nostra sempre più evidente disumanizzazione. La canzone degli America termina con “Under the cities lies a heart made of ground, but the humans will give no love” (Sotto le città si adagia un cuore fatto di terra, ma gli umani non gli daranno amore). Ma forse, se prestiamo attenzione, possiamo ancora porre rimedio a questo nostro disinnamoramento.

 

Cambio di scena: la città moderna, un mondo inabitabile - il culto della macchina- gli ultimi spazi dell'incanto e la loro graduale distruzione - esistono ancora luoghi che sfuggono alla storia?
 Jorn De Précy


Chissà quali sarebbero state le osservazioni di De Précy sulla città a distanza di più di un secolo dalla pubblicazione del suo libro. Egli descriveva la città come un luogo anonimo, fatto per le masse e non per l’individuo, un luogo disumanizzante. Se questo pensiero può essere in parte condivisibile, non si può negare che le città custodiscano mille volti e nella loro complessità nascondano anche il loro fascino. Questa suggestione appare evidente nelle fotografie ossessive e frenetiche di Simone Mussat Sartor che ci racconta la città e il suo ritmo costante e convulso nell’opera Scooter nord /Scooter sud, realizzata nel 2017 durante un viaggio in Vietnam. Si percepiscono la massa, il vociare della gente, il suonare dei clacson, l’energia delirante di un luogo che sembra non dormire mai. Ed è proprio in questa frenesia che è racchiuso il potere al contempo spaventoso e ammaliante delle città.

Allo sguardo istintivo e a colori di Simone Mussat Sartor si affianca quello razionale e monocromatico di Hilla e Bernd Becher le cui immagini descrivono un paesaggio fatto di un susseguirsi di cisterne, serbatoi idrici, silos, architetture industriali che, viste attraverso i loro occhi, ci appaiono in una veste nuova e mostruosamente seduttiva, come fossero le cattedrali del XX secolo.

Ma sono le opere di Botto&Bruno e di Dubravka Vidović a sottolineare in modo più evidente la rischiosa tendenza di una società sempre più disumanizzante.

Da sempre Botto&Bruno dedicano la loro arte alla periferia. Le loro opere sono il frutto di rielaborazioni in cui la periferia viene fotografata, ritagliata e ricomposta fino a creare un paesaggio periferico “altro”, che non esiste nella realtà ma che potrebbe identificarsi in qualsiasi luogo. Proprio come accade in Sing a lone star, paesaggi desolanti di degrado urbano sono spesso accompagnati da cieli plumbei, da riferimenti al mondo musicale e dalla presenza di giovani figure di cui non si riesce mai a scorgere il volto. Luoghi e identità fantasma che tentano di catturare la nostra attenzione.

L’ambiente che ci descrive Dubravka Vidović attraverso l’opera Shikumen’s wall #1 ci riporta in oriente, in Cina. Qui l’artista sofferma il suo sguardo sulle superfici dei muri degli shikumen, le tradizionali case di Shanghai, la città più popolosa al mondo, dove l’aggressiva politica di sviluppo urbano ha determinato la distruzione di queste abitazioni e il conseguente sfratto degli abitanti. Prima che fossero abbattuti, Vidović ha fotografato i muri degli shikumen, inserendovi tra i mattoni grezzi vecchi libri e frammenti di stoffa, traccia di vissuto umano altrimenti dimenticato.


Il giardinaggio…richiede una certa attitudine.
È necessario accettare il dinamismo della vegetazione con serenità

Gilles Clément


Le opere esposte nell’ultima sala della galleria costituiscono il capitolo conclusivo della mostra: la natura qui sembra prendere il sopravvento sull’essere umano e sulla città, la vegetazione spontanea si riappropria di ogni luogo abbandonato dall’uomo proprio come nel “Terzo Paesaggio” di Gilles Clément.

Paola De Pietri analizza con sensibilità il cambiamento sociale e ambientale del vasto territorio della pianura padana. La serie Questa Pianura è un lavoro meticoloso che la impegna per dieci anni, dal 2004 al 2014, durante i quali ha fotografato alberi e case coloniche ormai disabitate e spesso in rovina. Alberi e case, con una distribuzione non casuale nello spazio, hanno perso la loro funzione originaria agricola, economica e sociale, e appaiono come parole di un discorso frammentario di cui non è più possibile cogliere il senso complessivo. Se la dissoluzione e la rovina sono evidenti, gli alberi ora privati di vincoli funzionali, crescono nello spazio secondo il loro piano biologico naturale e originario.

In Black Silence i paesaggi periferici di Botto&Bruno vengono questa volta ispirati dalle illustrazioni fantastiche di Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne, che gli artisti hanno via via celato attraverso sovrapposizioni e ripetizioni di segni a china, nero su bianco, dando vita a una vegetazione astratta che lentamente si riappropria di angoli e interstizi urbani.

Out of Garden #2 di Gioberto Noro, immagine volutamente enfatizzata, sprigiona un’atmosfera magica e surreale. Un paesaggio con un che di lunare ingloba tra le sue rocce quel che resta di un bunker corroso dal tempo, traccia tangibile della guerra, quasi come se la natura avesse il potere di azzerare tutto, ma anche di chiederci di fermarci, di ascoltare e di ridimensionarci.

Infine, emblematica e potente è l’opera di Anush Hamzehian e Vittorio Mortarotti. Decontestualizzata dall’ampio progetto Most Were Silentrealizzato ad Alamogordo, New Mexico, dove ebbe inizio l’era atomica, l’immagine tagliente di un cactus, illuminato da un flash abbagliante, sembra parlare anche di un’altra storia, quella di Pripyat, città ucraina ormai fantasma, emblema del disastro nucleare di Chernobyl, dove la natura ha riconquistato con fatica il territorio violato. E così il cactus, fotografato là dove furono eseguiti i primi test nucleari, può diventare anche simbolo della forza della natura che si oppone ai disastri ambientali che l’uomo continua a provocare.